martedì 5 settembre 2017

Presentazione "Opere da viaggio"


Se guardiamo la fotografia nella sua dimensione fisica e emozionale e non semplicemente nel suo carattere di immagine riproducibile all’infinito, non possiamo non vedere quanto la sua chimica, il suo supporto materiale, il tempo di ripresa, di sviluppo, di trasmissione dell’immagine siano pervicacemente legati alla nostra corporeità tattile, olfattiva e a tutto il nostro sentire fisico, e ancora ai nostri tempi soggettivi, emozionali. Difficile vederne la continuità nel mondo “immateriale” e diffuso (nel proliferare dei più svariati mezzi di ripresa) del digitale. Un mondo legato ad un antico dio è morto e un nuovo dio, o forse più dei, ne hanno preso il posto. In questo lavoro che qui presentiamo, in una commistione a quattro mani tra fotografia e disegno, si è voluto evidenziare proprio il carattere di unicità della pratica fotografica nella sua breve ma intensa storia. Una unicità che può permettersi il confronto e perfino l’ibridazione proprio con la sua storica rivale: la pratica pittorica, piuttosto che con il suo presunto successore tecnologicamente più avanzato. Certo, stiamo parlando di una pratica, quella fotografica, finita; che ha possibilità d’avvenire solo in termini di nostalgia o di hobby con gusto retrò. Ma è una pratica la cui storia resta comunque inscritta nei nostri corpi novecenteschi e che resterà in quelli del nuovo millennio sotto forma di traccia, impronta indelebile nel percorso filogenetico della nostra specie. Opere da viaggio sono pertanto la memoria di un sentire e di un vedere non più attuali ma che continueranno a permanere come memoria del corpo. L’unione con la pratica artistica per eccellenza, quella capacità che risale agli albori dell’uomo: l’incidere segni e spargere colori su superfici materiali sta qui a rappresentare, in questi lavori ibridi, il senso di un viaggio che non può terminare se non con la fine del viaggio umano. Dentro plastificati facsimili di copertine di libri, in realtà vecchi contenitori trasparenti di diapositive, si dispiegano nuove configurazioni visive che annunciano un nuovo percorso di viaggio, quello delle memorie delle cose morte: la fotografia, in prima istanza, ma anche la pittura, almeno in quell’idea più consueta di pura imitazione del reale (distrutta fin nelle fondamenta da tutta la variegata esperienza artistica del Novecento). È un viaggio, qui esemplificato soprattutto dall’elemento fotografico più semplice: il provino a contatto, e dallo schizzo, disegno abbozzato e altri resti pittorici; elementi poveri per un percorso che si immagina lungo: il percorso delle sopravvivenze, dei resti e delle eccedenze che continueranno a insidiare, con esiti imprevedibili, un mondo futuro spettralmente dominato da un immaginario virtuale, tanto più immateriale quanto più innestato sotto pelle. Sotto quella nostra pelle che ancora ci ostiniamo a voler abitare. 


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