Se guardiamo la fotografia nella sua dimensione
fisica e emozionale e non semplicemente nel suo carattere di immagine
riproducibile all’infinito, non possiamo non vedere quanto la sua chimica, il
suo supporto materiale, il tempo di ripresa, di sviluppo, di trasmissione
dell’immagine siano pervicacemente legati alla nostra corporeità tattile,
olfattiva e a tutto il nostro sentire fisico, e ancora ai nostri tempi
soggettivi, emozionali. Difficile vederne la continuità nel mondo “immateriale”
e diffuso (nel proliferare dei più svariati mezzi di ripresa) del digitale. Un
mondo legato ad un antico dio è morto e un nuovo dio, o forse più dei, ne hanno
preso il posto. In questo lavoro che qui presentiamo, in una commistione a
quattro mani tra fotografia e disegno, si è voluto evidenziare proprio il
carattere di unicità della pratica fotografica nella sua breve ma intensa
storia. Una unicità che può permettersi il confronto e perfino l’ibridazione
proprio con la sua storica rivale: la pratica pittorica, piuttosto che con il suo
presunto successore tecnologicamente più avanzato. Certo, stiamo parlando di
una pratica, quella fotografica, finita; che ha possibilità d’avvenire solo in
termini di nostalgia o di hobby con gusto retrò. Ma è una pratica la cui storia
resta comunque inscritta nei nostri corpi novecenteschi e che resterà in quelli
del nuovo millennio sotto forma di traccia, impronta indelebile nel percorso
filogenetico della nostra specie. Opere
da viaggio sono pertanto la memoria di un sentire e di un vedere non più
attuali ma che continueranno a permanere come memoria del corpo. L’unione con
la pratica artistica per eccellenza, quella capacità che risale agli albori
dell’uomo: l’incidere segni e spargere colori su superfici materiali sta qui a
rappresentare, in questi lavori ibridi, il senso di un viaggio che non può
terminare se non con la fine del viaggio umano. Dentro plastificati facsimili
di copertine di libri, in realtà vecchi contenitori trasparenti di diapositive,
si dispiegano nuove configurazioni visive che annunciano un nuovo percorso di
viaggio, quello delle memorie delle cose morte: la fotografia, in prima
istanza, ma anche la pittura, almeno in quell’idea più consueta di pura
imitazione del reale (distrutta fin nelle fondamenta da tutta la variegata
esperienza artistica del Novecento). È un viaggio, qui esemplificato
soprattutto dall’elemento fotografico più semplice: il provino a contatto, e
dallo schizzo, disegno abbozzato e altri resti pittorici; elementi poveri per
un percorso che si immagina lungo: il percorso delle sopravvivenze, dei resti e
delle eccedenze che continueranno a insidiare, con esiti imprevedibili, un
mondo futuro spettralmente dominato da un immaginario virtuale, tanto più
immateriale quanto più innestato sotto pelle. Sotto quella nostra pelle che
ancora ci ostiniamo a voler abitare.
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